Nono, nemo al tirasegno?, chiedevo al nonno Francesco che mi teneva prudentemente per mano durante la consueta passeggiata mattutina; no, andemo al Civico, tra il rustico e bonario, rispondeva il nonno mentre salutava il passante che riguardoso si toglieva il cappello in gesto di rispettoso saluto. Per la verità, io preferivo andare al “tiro a segno”, proprio lì subito dopo il ponte, all'inizio della riva di Magrè dove abitavano i miei cuginetti con i quali liberamente sfogavo la irrefrenabile voglia di correre tra i grandi spazi chiamati le buche, che ad ogni cento metri si alternavano fino a raggiungere i quattrocento, infossate sull'argine destro del Leogra, colme di vigneti, di meli, di ciliegi, di peri e dove davamo la caccia alle farfalle, alle lucertole, ai grilli, alle cavallette, ai ragni nascosti nei misteriosi anfratti dei bersagli fissi che offriva il grande poligono di tiro del quale lo zio Augusto era addetto alla custodia. A pensarci bene, però, non mi dispiaceva nemmeno la scelta del Civico perché lungo la strada la fermata d'obbligo era ai famosi chioschi di viale Trento Trieste, meglio noti come i casotei soto le piante, dove il nonno era solito a procurarsi la ”Tribuna Illustrata” e per me comperava un ometto di marzapane non più grande di cinque centimetri, con il quale, regolarmente mi impataccavo mani, faccia e vestito dividendo poi, con il nonno, gli immancabili rimbrotti materni.
Ecco il Civico, per me, altro non era che un'osteria, dove il nonno d'estate andava a bere il suo bicchiere di vino, leggendo il giornale, seduto all'ombra dei vecchi tigli, dove incontrava qual-che amico cui conversare e dove io, nel giardinetto adiacente all'Asilo Comunale, succhiando l'ometto di zucchero, arricchivo nuove amicizie con altri ragazzini intenti essi pure ai miei stessi infantili passatempi.
Solo poco tempo dopo cominciai a far-mi un'idea meno confusa di quello che doveva essere il cosiddetto Civico, ma non ancora nella maniera ben chiara e definita. Per me, insomma, il Civico rimaneva comunque un'osteria, magari di particolare riguardo, come la definiva il nonno, ma pur sempre un'oste-ria, come invece la definiva la nonna.
In quegli anni, nell'ambito dei maestri rammentatori teatrali (indispensabili figure di sicurezza per gli attori che dovevano mandare a mente alcune decine di copioni), il nonno era ritenuto uno dei più validi ed esperti del settore, specialmente nel campo della musica operistica, dove era talmente apprezzato e ricercato tanto da essere spesso chiamato dalle imprese liriche a svolgere il delicato compito di suggeritore anche in altri importanti teatri come l'Eretenio di Vicenza, il Comuna-le di Lonigo, lo Zandonai di Rovereto, il Sociale di Isola della Scala e altri. Credo sia stato tale grado di parentela a farmi entrare in questo misterioso quanto maestoso tempio teatrale, quando forse non avevo ancora compiuto cinque anni, nei panni di uno dei pargoletti della fedifraga sacerdotessa belliniana, svelandomi come il Civico fosse anche qualcosa che probabilmente andava ben oltre la semplice osteria o bar di quartiere.
Decisamente più chiaro invece mi fu questo concetto qualche anno dopo quando un'altra casuale, fortuita circo-stanza mi portò a convivere per alcuni giorni sul suo grande palcoscenico a fianco degli attori della allora celeberrima compagnia di prosa del grande Cesco Baseggio, di passaggio a Schio per due recite della commedia Tramonto di Renato Simoni. Facevano parte del cast i fratelli Gino e Gianni Cavalieri, la signora Margherita Seglin, Tonino Barpi, e il bravo Gino Lazzari. Questo, essendo anche il di-rettore di scena, mi incontrò sotto i porticati dell'Oratorio dei salesiani, dove io frequentavo le scuole elementari, in un freddo pomeriggio autunnale, mentre si accingeva nella affannosa ricerca di un ragazzino che, secondo lui, fosse in grado di supplire un giovanissimo attore, improvvisamente assente per lieve indisposizione, nella nuova commedia del grande poeta veronese. Quant'anche si parlasse di comparsa, come spiegò ai miei genitori quando li incontrò per avere il dovuto consenso, capii che non si trattava di comparsa muta come la volta prece-dente, bensì parlante e con un bagaglio di ben undici battute e tutte da imparare a memoria!
Se ben poco o nulla ricordo del pargolo del proconsole romano Pollione, invaghito seduttore di entrambe le sacerdotesse dei Druidi, Norma e Adalgisa, vivissimo mi è rimasto invece il ricordo del simoniano Carletto che costituì il mio primo approccio con l'arte del teatro. Il palcoscenico che a me dava l'idea di una immensa, impressionante voragine ricolma di ogni inimmaginabile ben-di-dio, il formicolio di gente intesa ad un infervorato andirivieni, lo smartellare dei macchinisti, il chiassoso vociare degli elettricisti, l'infervorato brulicare dei servi di scena, il ronzio degli scenari che si alzavano e abbassa-vano con precisi movimenti, la grazia della sarta che mi riadattava un vesti-tino di velluto nero con i bottoni di madreperla e i pizzi di sangallo sul colletto e sui risvolti delle maniche, i due pianoforti verticali addossati di spalla, uno in scena, al quale era stato elimi-nato il meccanismo dei martelletti e sul quale io dovevo fingere di suonare e un altro, in quinta, sul quale realmente suonava la giovanissima Luisa Baseggio, nipote del famoso Capocomico; ma soprattutto ricordo le prove dello spettacolo dirette dallo stesso Baseggio che nei miei confronti usava una gentilezza ed una delicatezza del tutto speciali tali da agevolarmi, lo capii più avanti, il ruolo del personaggio che avrei dovuto interpretare. E per ultimo, quello che non dimenticherò mai, il batticuore fortissimo della prima entrata in scena, della prima battuta uscitami dalle labbra, lo schianto delle luci che mi isolavano dalla platea accecandomi completamente, gli affettuosi incoraggiamenti della signora Margherita che riuscivano a sciogliermi il brivido che mi raggelava la schiena e mi attanagliava le gambe, gli applausi cosiddetti di chiamata a fine commedia e il complimento di Baseggio che, dopo di aver ringraziato e ricompensato mia madre, mi congedò dicendomi “... e 'desso, che se intendemo ben, no' te metarè in testa griji da grande artista!....”.
Su di un tabellone di legno era appuntato un vistoso foglio di carta che, al dire della data, doveva essere stato affisso il giorno prima e sul quale si leggeva Ordine del giorno: ore dieci, terza scena primo atto, seconda scena e ultima scena terzo atto; (Carletto in prova senza costumi); ore tredici, intervallo; ore quattordici ripresa delle prove in costume. Ore 21 spettacolo”. Facevano seguito alcune informazioni di servizio sugli orari dei treni per Legnago dove gli attori dovevano trovarsi il giorno dopo al novissimo teatro Salieri.
Ed a questo punto, avendo finalmente capito che cosa fosse realmente il Civico, i miei rapporti con il massimo teatro cittadino avrebbero potuto anche fermarsi lì se, invece, appena pochi anni dopo, non fossimo rimasti coinvolti in quella terribile e disastrosa guerra che sconvolse il mondo e che in pochi mesi allontanò dalle proprie case, assieme ad una buona parte di italiani, anche un considerevole numero di giovani scledensi. Il Civico, che nel frattempo, per affrontare le precarie condizioni economiche che peraltro da sempre lo avevano accompagnato, ave-va dato spazio anche agli spettacoli cinematografici, si trovò così improvvisamente sguarnito del suo secondo operatore cinematografico, lui pure chiamato al servizio militare. Il caso, tanto strano quanto buffo, che qui non vale la pena di ricordare, e cioè che io a soli diciassette anni, fossi già in possesso del documento prefettizio che mi abilitava all'esercizio di operatore cinematografico, fu il motivo per il quale precipitosamente fui pregato dai gestori del teatro (meglio sarebbe a dire obbligato dalle autorità politiche locali del tempo), ad assumere il compito di secondo operatore di cabina al Cinema Teatro Civico, il cui posto era stato improvvisamente lasciato vacante dal precedente operatore, già partito per il fronte russo.
Per otto anni quindi, da quel privilegiato punto di osservazione come poteva essere la cabina cinematografica, al quale poi si aggiunse il palcoscenico, dove assistevo l'operatore anziano ne-gli allestimenti elettrici che le esigenze tecniche degli spettacoli richiedevano, fui testimone non solo di tutti gli eventi teatrali che si susseguirono in quegli anni al Civico, ma anche, purtroppo della sua inesorabile, vergognosa, disastrosa ed umiliante decadenza. Dall'occupazione dei camerini compiuta da persone che ne avevano fatto i propri alloggi, alle criminose sottrazione di sedie, tavoli, lampadine elettriche, tendaggi, lampadari dei palchetti, legna-me, porte e finestre intere fino alle assi dei gradoni del loggione e all'irresponsabile vandalica assurda distruzione del sontuoso sipario rosso tagliato a pezzi forse per ricavarne ridicoli quanto inutili e assurdi copriletto. Per sotta-cere poi dell'orrendo sfregio compiuto all'atrio d'ingresso trasformando il vano della porta centrale d'accesso alla platea, in una inverosimilmente oscena, pseudo-fittizia cabina cinematografica.
Tristemente amareggiato da quel turbine di follia devastatrice capii allora non solo che cosa fosse il Civico ma anche e soprattutto che cosa rappresentasse, con la sua storia e la sua tradizione per l'intera città di Schio e per i suoi cittadini. E lo sgomento che mi pervase fece nascere in me, nei ri-guardi del vetusto teatro, un senso di amorevole inquietudine e di tenero affetto.
Poi si spensero le luci, si chiusero definitivamente le porte, si murarono le finestre e quello che tralasciarono di compiere i vandali lo compì il tempo in mezzo secolo di ingiustificabile oblio, di inconsapevole trascuratezza e di insensato colpevole abbandono.
“Il teatro - diceva Garcia Lorca- è uno dei più utili, espressivi ed essenziali strumenti di civiltà per un paese, è il barometro che ne segna la grandezza e la rovina. Un paese che non accoglie il grido sociale e storico della sua gente, che non aiuta e non sostiene il teatro, se non è morto, è moribondo.” (1)
Finalmente il 30 dicembre dell'anno 1982, nel corso di uno straordinario Consiglio Comunale, il compianto sin-daco Rossetto annunciava, con inconsueto trionfalismo, l'imminente recupero del Teatro Civico. Studi, preliminari, progetti, permessi, licenze, capi-toli di spesa (2), contributi, tutto, ma proprio tutto, era stato codificato, pianificato e unanimemente approvato. Bastava solo che in via Maraschin si aprissero i cantieri come si apersero, quasi per incanto, ad una legittima, lusinghiera quanto agognata speranza i cuori degli scledensi. Ripresero con rinnovato slancio le iniziative culturali che sembrava stessero per cadere in letargo e altre ne sorsero di nuove.
L'Associazione degli Amici del Teatro si rinvigorì di nuovo impulso arricchendo con nuove offerte il suo repertorio, peraltro già notevolmente interessante e significativo, l'infaticabile signora Angela Capellari, sua presi-dente, si adoperò subito, con la passione di chi si mette realmente in gioco, per la costituzione di un ente in grado di operare, con oculata e competente saggezza, nei non facili meandri del mercato del teatro, sorsero due nuove compagnie teatrali dilettantistiche “Il Sottoscala” e “L'evento”, mentre la ancora giovane compagnia “Schio Teatro Ottanta”, diede vita ad uno dei più importanti eventi teatrali nazionali, lo Schiofestival. Nonostante tutto ciò, nell'euforia venutasi a creare dal nuovo fervore, non ci eravamo accorti che ad attenderci c'erano ancora ben altri trent'anni di estenuanti lungaggini burocratiche, di proclami, discussioni, appelli, pronunciamenti, di certo più che sufficienti a smorzare gli entusiasmi di quanti concretamente e coraggiosamente si erano adoperati nei di-versi modi per rendere testimonianza di quanto appassionato e sincero fosse l'interesse per il recupero del vecchio e oramai fatiscente teatro (3). Nel frattempo, con i pochi soldi raggranellati si diede mano al recupero del foyer, la grande sala “Ridotto” del teatro, che si dimostrò essere validissimo ausilio alle sempre più crescenti esigenze pubbliche cittadine e si provvide all'acqui-sto del cinema “Astra” che a suo modo lui pure, bene o male, riuscì a rispondere alla funzione di utile surrogato a quel teatro che, nel frattempo, non gli restava che riprendere il suo oramai naturale letargo e pazientemente attendere.
Poi, quando tutto dava a pensare che il problema fosse ripiombato nel dimenticatoio, quasi all'improvviso la civica Amministrazione parve aver recepito questo lacerante grido collettivo leva-tosi a guisa del virgiliano Laocoonte, affrontando decisamente (anche se lentamente, ma si spera definitiva-mente), l'annosa quanto dolorosa e difficile situazione che oramai stava diventando la vera spina nel fianco di tutte le ricorrenti pubbliche amministrazioni comunali che nel corso degli anni si andavano regolarmente succedendo.
Ed ecco quindi come il Civico, con quel fascino che solo i teatri arcanamente sanno esercitare, aveva fatto breccia anche in me non solo attraverso i coinvolgimenti diretti ed indiretti ricorda-ti, ma anche per l'influenza, senza dubbio positiva, che ebbe nella mia conformazione teatrale. Non dirò qui, per non annoiare ulteriormente il lettore, quale e quanta importanza ebbe nel farmi ammettere ai corsi teatrali di Jacques Lecoq e Margaret Grenier organizzati dalla società “Umanitaria”, che negli anni cinquanta dirigeva le Scuole Libere Popolari italiane, come pure alle giornate teatrali di San Miniato, ai prestigiosi “Premi Bompiani” a Milano e quanto utile e preziosa mi sia stata l'esperienza fatta tra le sue storiche mura, quando qualche anno dopo e fino al 1965, ebbi l'incarico di dirigere il teatro Jacquard per conto della allora Lanerossi. Dirò invece che di certo fu in questo modo che divenne “Il mio Civico”.
Ora, dopo essere stato per tanti anni impotente testimone di dolorosi eventi, ma anche di veri esaltanti momenti artistici, non mi rimane che affiancar-mi alla schiera di tutti quei concittadini che auspicano, ma la lista degli auspici sarebbe lunghissima, che la celebrazione centenaria in ricordo della nascita del nostro maggior teatro, risvegli nelle sonnolenti coscienze i più lodevoli e nobili sentimenti, svincolandoli dai vizi della indifferenza, per riportare il Civico ad assumere il ruolo che gli compete nel vasto panorama dell'Arte, come pure ad assolvere pienamente e serenamente quella solenne antica ma pur sempre nuova, funzione per la quale i nostri padri lo vollero, e perché possa rendersi interprete di una civile ripresa culturale e morale non solo della Città ma dell'intero nostro Paese.
Antonio Balzani
1) “L'Attore” Ed. SET - Torino 1949
2) Il progetto prevedeva una spesa complessiva di 4 miliardi di vecchie lire.
3) Ci riferiamo alle coraggiose iniziati-ve condotte per oltre un ventennio dal-la Associazione Amici del Teatro e per quasi un altro dallo Schiofestival, non-ché al volume Il teatro Civico di Schio di Giuseppe Baice ed. Menin - Schio 1979, nonché al generoso tangibile apporto sia di tempo come di denaro di molti cittadini.
stefano
Lucia
Andrea Genito