divagazione senza pudore di un regista sul teatro contemporaneo
Spesso ci si trova di fronte a pseudo esperti e critici teatrali che si compiacciono di parlare di teatro moderno o contemporaneo, dispensando giudizi e grandi commenti cui, solo per pietà, si evita di replicare, lasciando nella beata e solida ignoranza questi grandi luminari della cultura. Altre volte invece (poche per la verità), si ha la fortuna di ascoltare chi è competente e capace di stimolare riflessioni e nuove conoscenze in campo artistico. Questa fortuna mi è capitata al Convegno nazionale della UILT lo scorso aprile, quando, assieme ad altri tre nostri eroici associati (Celestino, Giovanni e Marco), ho potuto assistere ad una corposa conferenza sulla prosa contemporanea che metteva a confronto il teatro drammatico con quello post drammatico. Al di là delle definizioni e risparmiandovi i riferimenti, cari ai cultori della tecnica teatrali, di Mejercol'd, Grotovski, Broke e Barba, la questione tocca da vicino noi teatranti che da sempre percorriamo la polverosa strada dell'allestimento e dobbiamo affrontare le spinose tematiche di come si elabora un copione, come si costruisce una regia e come si decide una interpretazione.
Semplificando molto, possiamo sintetizzare i concetti nel modo seguente:
- nel teatro drammatico il regista ha definito precisamente il suo progetto e studia nei minimi particolari tutta l'architettura interpretativa dell'opera, richiedendo poi agli attori, scenografi, costumisti, compositori, coreografi e tecnici di esprimere una “creazione” artistica che sia perfettamente aderente alla lettera della indicazione registica. In questo ambiente l'attore deve trovare il modo di elaborare la sua espressione indossando il vestito tagliato ad arte sul personaggio pensato e dipinto dal regista, facendolo vivere in sé medesimo. L'operazione richiede grande maestria da parte dell'interprete e totale assoluta adesione al dettato registico.
- nel teatro post drammatico invece, il regista elabora uno scheletro della struttura interpretativa, definisce le linee generali e quelle che ritiene essenziali per l'obbiettivo unitario del progetto. La qualifica puntuale e sostanziale dell'opera avviene attraverso un processo di creazione collaborativa con gli attori e gli altri soggetti che intervengono nell'allestimento. In questo percorso il regista non deve dire “tutto” ma cogliere nell'interprete le sfumature e le novità peculiari che andranno a completare la messa in scena. Non si tratta di una riedizione delle sciagurate esperienze delle regie collettive, dove la meccanicità della realizzazione nasconde una incapacità di elaborazione concettuale unitaria, quanto piuttosto un modo diverso di relazionarsi tra chi interpreta il testo (il regista) e chi interpreta il copione (l'attore).
È evidente che l'attore che si approccia al post drammatico, deve accettare di mettersi in gioco a livello creativo non soltanto facendo rivivere il personaggio, ma anche riscrivendolo, indagando il testo in modo diverso dal drammatico, ossia andando “oltre”, così collaborando attivamente con il regista. In questo meccanismo interpretativo, dove la figura del regista si avvicina a quello di un direttore di orchestra, l'incontro-scontro con l'attore porta a scoprire ed accettare sviluppi inaspettati del personaggio, pur nell'ambito della cornice generale pre-impostata in origine.
Chi non è abituato o predisposto a questa metodologia, può trovarsi spiazzato, disorientato, magari infastidito dalla diversità espressiva, con l'impressione di non comprendere quale sia la strada da percorrere; per questo, al regista spetterà il compito di capire con molta prudenza e sensibilità quello che dovrà e quello che non dovrà dire al singolo interprete, così da delimitare il giusto spazio creativo, senza mai standardizzare e cogliendo indizi e aperture a nuove originalità. Il lavoro sull'attore è più complicato e profondo e richiede di rafforzare maggiormente il presupposto relazionale che io chiamo “patto fiduciario”: la fiducia intima che si deve comporre tra gli interpreti per consentire il lavoro reciproco e complementare nella formazione dello spettacolo. Se manca il patto fiduciario, il regista perde il suo ruolo, viene compromessa la relazione, disgregato il gruppo e negato l'affiatamento.
La strada del teatro drammatico è certamente più rassicurante (non più facile!) di quella del post drammatico ed anche foriera di più sicuri risultati e riconoscimenti da parte della critica e del pubblico. Tuttavia se il percorso dell'attore è un cercare se stessi nell'interpretazione per coinvolgere lo spettatore nella medesima ricerca, allora, forse, non dovremmo aver paura di nuove strade e il consenso pubblico, seppur non cercato, o prima o poi, arriverà... magari anche di uno sparuto e ristretto gruppetto!
Ed ora, alla fine di questa lunga riflessione, consci che la risposta ha riflessi non solo sulla interpretazione ma anche sulla stessa organizzazione ed impostazione del nostro gruppo artistico, possiamo rispondere seriamente alla domanda: “Tu, noi, il cast a cui apparteniamo, la nostra compagnia: vogliamo essere drammatici o post drammatici?”.
Il Maestro
stefano
Lucia
Andrea Genito