L’evoluzione da “I Monologhi della Vagina” a “Cromosoma Doppia X”
È irresistibile e accidentato il cambiamento e pure l’irrequietezza che lo precede.
Ma ogni replica è uno spettacolo nuovo che libera possibilità inaspettate che stanno già dentro di me, devo solo darmi l’occasione di esplorare, di farmi sorprendere. E cresce la voglia di lasciarmi turbare dalla complessità di tante sottili sfumature che si intravvedono appena. Sono suggerimenti per cambi di rotta?
Sono nuovi significati ben nascosti dentro parole sempre più pesanti.
Ma una parola è già troppo oggi, oggi scelgo il silenzio e il tempo lento della chiusura in cui custodire i pensieri. Perché raccontare la grazia vissuta sembra quasi stropicciarla e svilirla tra le faccende quotidiane. Oggi voglio essere lasciata così come una cosa posata in un angolo e dimenticata, per trattenere e ripensare.
Allora gli attimi riaffiorano e li allineo ad uno ad uno, dò loro un ordine cronologico che è piuttosto l’ordine del crescendo. L’attacco lo dà la contrazione dello stomaco, poi è l’inquietudine lieve, quasi salutare, motivante. Infine la paura che mi fa prendere pieno contatto con ogni singolo passaggio che sto vivendo e modellando. Che mi fa ripercorrere scientificamente movimenti, gesti, volumi. Voglio essere pronta a lasciarmi trasformare. Non solo quando tocca a me, ma molto prima, quando il gruppo condivide, generoso, le emozioni.
In bagno tre volte e poi via, con il mio buco in pancia, che non è fame, sopraffatta dai giornali strappati con violenza, dai carnefici di Alessandra, dal grido rosa tenero di Paola, sento la mia voce “oddio sono io che parlo?“ e prima ancora il corpo che va da solo e si prende lo spazio, i piedi ben piantati a terra, il respiro dalla pancia, il mio seno che spinge, il cervello che c’è, tutto lavora insieme e le scene si intersecano nel magico dosaggio di voce tono ritmo parole pause. Un maremoto preceduto da un sussulto, preceduto da un brivido. Sembra amore, e forse lo è.
Voglio che tutti provino sulla loro pelle come si vive al buio dentro uno schermo nero, voglio che sappiano che io non sono d’accordo ma che non ho altra scelta, per ora. Ma che non sono d’accordo. Sono una persona io, voglio ridere, voglio studiare, voglio farmi un’opinione, voglio poter andare all’ospedale se sto male, voglio che la mia pelle senta il sole. Non voglio più girare muta e indistinta sotto il burqa, a meno che non lo decida io, voglio un Dio che pensi anche a me, voglio rispetto.
Voglio vivere.
Voglio vivere la mia identità femminile, voglio poter essere contenta di essere una donna, gli altri dovrebbero essere contenti che io sia una donna e me lo dovrebbero dimostrare. Voglio stare bene, voglio provare il piacere che mi merito.
Domani però.
Domani ti racconterò tutto questo, ma ora è tempo di silenzio. Di geloso silenzio.
Domani ti travolgerò raccontandoti che il nostro è un inno alla femminilità, un incitamento a riappropriarsi di sé stesse in tutto il proprio essere emotivo, fisico, sociale.
Il burqa sarà il mio pretesto per poter parlare fuori contesto, perché sul burqa non si è mai finito di dire quel che si ha da dire e ogni rilettura è una scoperta. È storia di ostracismi e censure. Di stereotipi e pregiudizi: una faccenda pericolosa quando lo stereotipo riguarda temi sensibili come l’etnia, il genere, l’orientamento sessuale, l’età anagrafica, l’aspetto fisico.
Il burqa definisce concetti quali discriminazione, segregazione, punizione, allontanamento, diversità dall’unico modello universale abbastanza perfetto che è il maschio bianco.
Parlare di burqa è abitare situazioni scomode, è precipitare e poi risalire. Forse.
Il burqa è sessualità negata. Luogo di tutte le contraddizioni, la sessualità femminile evidenzia la difficoltà di unire desideri personali e ipocrisia sociale: il piacere, il mito della verginità, i precetti del Corano, la maternità, l’omosessualità, l’infibulazione, il matrimonio forzato o combinato, le molestie per le donne che lavorano, lo stupro come terapia contro la disubbidienza.
Ho conosciute donne velate e so che molte amano il proprio velo per la protezione che assicura loro da attenzioni indiscrete e disturbanti. Per molte donne islamiche mettere il velo è rientrare nella propria intimità, è lo spazio privato della femminilità, che è spirituale e schiva ad apparire. Dapprima faticavo a capirne il valore simbolico. Ora so che scegliere di indossarlo in determinate circostanze è un gesto consapevole di educazione e di cultura.
Ma so anche che nel mondo islamico la maggior parte dell'universo femminile soffre di un malessere fisico, legato al sentimento di vergogna per il proprio corpo, inculcato fin dalla tenera età da una mentalità conservatrice, patriarcale e violenta.
A giugno a Istanbul ho incontrato una ragazza turca vissuta anni in Germania con la famiglia, poi rientrata in Turchia dopo che l’emergenza lavoro era terminata. L’ho conosciuta in Moschea, dove lei si era recata per pregare e dove io ero entrata, scalza e con i capelli coperti, per capire, come spesso mi succede. Non avevo accesso al cuore maschile della Moschea e sono salita nel loggione-recinto riservato alle donne. Le ho rivolto la parola e mi ha invitata a sedermi tra le sue amiche. “Non serve che preghi, puoi stare qui con noi”. È stato magnifico vivere la preghiera dall’interno, in un rito al contempo interiore e corale. Mi hanno accolta. La sorellanza esiste.
Arrivavano a gruppetti, la maggior parte vestite come qualsiasi donna di qualsiasi città del mondo, ma dalle borse uscivano altri vestiti, lunghe gonne con l’elastico in vita infilate in un attimo sopra i jeans, ampie camicie da indossare sulle magliette, foulard colorati per i capelli. Pudore uguale a rispetto.
Ma non è dappertutto così. Per un Medioriente tollerante e progressista o per la Turchia che da Piazza Tahrir tenta disperatamente di rimanere laica e moderna, esiste l’integralismo della Shari'a, esistono donne che vivono dentro l’harem, intorpidite dal burqa, donne vittime dell’acido solforico, donne recluse. Donne spaventate che si ingozzano di cibo per ingrassare, per punirsi, per farsi del male, e soffocare lo schifo della vita che è loro toccata e che non hanno scelto.
Donne frustrate e gelose, relegate nel privato, senza peso nel sociale, senza più sogni. Insicurezza sulla propria identità, alienazione. E anche se dietro quei burqa ci sono spesso donne coraggiose e libere di spirito, gli occhi sono tristi.
Mentre in Occidente ci sono donne sempre più svestite e apparentemente libere, in Oriente si copre il corpo.
Velare, nascondere, occultare. Ma il velo è anche simbolo di purezza, integrità fisica, di appartenenza religiosa (perché altrimenti lo porterebbero in occidente le donne mussulmane?) Il concetto di coprire la testa è legato alla sacralità, significa non subire influenze esterne e rimanere concentrati nel il divino.
È il velo della sposa, il capo coperto in chiesa, biancheria trasparente. È intravvedere, rubare un’immagine, verginità da violare.
Posso fare qualcosa io? Certo, posso migliorare la qualità della mia “dieta intellettuale”. Posso superare l’inerzia muovendomi verso gli altri per comprendere e condividere, posso in prima persona uscire dalla gabbia dei ruoli sociali imposti, posso fare del teatro un luogo di incontro di vite che si raccontano.
Alcuni libri mi hanno aiutata: Ritorno ad Haifa, La danzatrice bambina, Viaggio di nozze a Tehran, Pietra di pazienza, La mandorla, La parrucchiera di Kabul, Murata viva, Pappagalli verdi, Colazione da Starbucks, La donna dal vestito di piume da “Le mille e una notte”in cui un uomo ruba il vestito della donna che ha le ali: è simbolicamente la sottrazione della libertà per paura che voli via. È possesso con la forza, privazione della capacità di volare.
Burqa afghano, Hijab, Niqab, Abaya saudita, Chador iraniano, Haik, sono i nomi del pubblico riconoscimento della sottomissione?
Ma tutto questo domani.
Oggi c’è il calore delle persone sedute davanti a me: hanno gli occhi lucidi e sembrano contente di essere lì. La meraviglia della relazione con gli altri, che è creazione, mi ha commosso. Abbiamo passato un tempo buono insieme.
Oggi sto con me.
Magda D.
stefano
Lucia
Andrea Genito